I Martiri Irpini
GIUSEPPE CAMMAROTA

I MARTIRI IRPINI


(nel centenario della Repubblica Napoletana)

Questo discorso fu pronunziato il 22 ottobre 1899 nel Salone del Palazzo Municipale di Atripalda: in una sala attigua, dopo il discorso, fu scoverta una lapide che porta un'iscrizione dettata dal prof. Pasquale Cannaviello.

Cittadini Atripaldesi, Signori della Provincia,

Se in questa cerimonia, che muove da pubblica riverenza, si leva trepidante la mia parola, è che sento di essere disadatto alla solennità del momento. Ma pur disadatto accettai, perché l'invito mi venne da questa industre ed a me simpatica città, nella quale col povero padre mio in altri tempi venivo ad esercitarmi nel lavoro, lavoro onesto e santo non meno di quest'altro, cui una tenacia di volontà mi chiamò. Accettai perché la mia venerazione alla memoria dell' uomo che ebbi più caro mi rendeva riconoscente a questa cittadinanza, dalla quale egli ritraeva l'onesto guadagno per educare i figli suoi. Se sull' animo mio ha potuto tanto questo sentimento, che trascurai di esaminare le mie forze per trattare così alto argomento, io ho fede che voi compatirete, voi che siete qui riuniti da uno stesso palpito di pietà per un trapassato. Così mi prostro con voi dinanzi all'altare, che oggi elevate ad un martire di un secolo in nobile gara colle popolazioni del mezzogiorno d'Italia nell' onorare le vittime di un governo barbaro. Alla generale manifestazione di questa carità di patria non poteva restare indifferente la nostra provincia che dette il primo olocausto a quella scena di sangue e dette pure quasi l' ultimo con cui quella scena si chiuse: Vincenzo Galiani e Giuseppe Cammarota. Riportiamoci colla mente serena e col cuore mesto a quei tempi e contempliamo.

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Triste ma grandiosa prerogativa della Storia quella di plasmare un'epopea nel sangue aggrumito, di spargere acqua benedetta lì dove il sangue è scorso, di intessere molte volte una corona di alloro su di una trave orizzontale, sul più terribile, efferato istrumento d'invenzione umana: il patibolo. In una generazione passa talvolta un'idea umanitaria, redentrice; si scolpisce nella mente di uno o più uomini, e da essi si propaga nel popolo e vi fermenta. Il tiranno trema perché teme di queir Idea ed allora con fatale stoltezza tronca le teste da cui quella più fortemente prorompe. Il sangue è versato, ma in esso si è raccolta queir Idea, la quale vi bolle dentro, vi si condensa, si santifica insomma nella mente dei popoli. L' atto del tiranno, medico incauto della propria salute, a me sembra rassomigli al salasso fatto nelle vene di un corpo troppo pieno di sangue: esso rinvigorisce le fibre di queir organismo esuberante di vita, il quale dicesi popolo. Ed in vero è assioma che l'Idea che la scure tronca o il capestro affoga, risorge, come l'idra, in cento altre teste ingigantita. Se innanzi al patibolo dell' assassino si torce lo sguardo inorriditi, innanzi a quello del martire si guarda abbagliati come da una luce sovrumana, luce che rischiara e riscalda l' avvenire. Questi calvari sono vette che avvicinano l'uomo a Dio; questi patiboli sono gli accumulatori di quella forza elettromotrice, che dicesi evoluzione, progresso. E le piazze, dove si è soffermato il carnefice di Emanuele De Deo, di Vitaliano e di Galiani, dei Cirillo, dei Pagano, delle Pimentel e del vostro Cammarota, diventano luoghi sacri, ove posano le are dei popoli. Ed è bello davvero in questa ora di vedere che tutto il popolo del mezzogiorno d'Italia si prostra a pie di questi altari religiosamente, rivolgendo lo sguardo indietro d' un secolo ad ammirare il luminoso cammino di queir Idea di redenzione, il quale rosseggiò di tanto sangue. Fu con questo sangue che si scrisse la prima pagina dell' Epopea, che, narrando del '20, del '48 e del '60, doveva chiudersi immortale nel '70 su una porta dell' immortale Roma, quando tra il rombo dei cannoni queir Idea armando mille e mille giovani bersaglieri italiani apparve gigante innanzi a Porta Pia e, al grido d'Italia, sfondò quelle mura secolari per la potenza papale, e si assise sulla breccia nel poetico simbolo d' una bandiera dai colori della speranza, dell' amore e della fede.

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Il sole nell' ultimo occaso del secolo scorso mandava tenui raggi sulla Francia e su Napoli: era un saluto languido e triste del secolo che moriva, un saluto di stanchezza, fatto di raggi vermigli, perché si riflettevano nel sangue non ancora asciugato. La prima alba di questo secolo vide assisa sulla Senna una donna pensosa a cui un uomo porgeva conforto e sollievo, mentre ella, diventata sorridente e piena di speranze, si accingeva a seguirlo per la via della Gloria; e vide a piè del Vesuvio, sul Sebeto, una donna triste ed insanguinata, che un uomo brutale flagellava ancora barbaramente: l'alba di questo secolo aveva veduto la Francia e Napoleone, Napoli ed il Borbone. I primi raggi incontrarono lo sguardo di quel nuovo genio e di questo vecchio tiranno; gli uni andarono ad infrangersi nelle acque del fiume che bagna Parigi; gli altri si confusero coi bagliori vermigli della lava del Vesuvio. Ferdinando IV tremava ancora inorridito innanzi al busto decollato di Luigi XVI, e la Regina Maria Carolina sobbalzava tuttora nel sonno dinanzi al fantasma insanguinato della sorella Maria Antonietta; perciò ad entrambi la bandiera di libertà, che giovani inebriati ai fatti della vicina Nazione avevano imbrandita, faceva l'effetto del drappo rosso sugli occhi dei tori: eccitava di più la loro codardia e ferocia. Era dunque destino di queste nostre contrade che altro sangue di martiri si dovesse versare. E la prima vittima del carnefice in sugli albori di questo secolo doveva essere un vostro concittadino, o Atripaldesi, un nobile ed infelice giovane, che l'entusiasmo per le nuove teorie aveva strappato agli agi ed alla tranquillità delle pareti domestiche, ed aveva spinto ad affrontare i rischi delle congiure. Il suo nome è scolpito nelle vostre menti e voi, o Atripaldesi, lo so, giustamente inorgoglite del nome onorato di Giuseppe Cammarota. Animo buono e generoso, cuore ardente di amor di patria e di libertà, egli non meritava di languire come un malfattore nella lunga e tetra agonia dei ceppi e di essere infine avvinto dal capestro infame. In sulle 20 ore di un giorno di sabato, il 4 gennaio 1800, in Napoli usciva dalla Vicaria la Giustizia e s'avviava a piazza Mercato. Quattro cittadini con serenità di animo ascendevano il palco terribile; fra essi con maggiore serenità l'ascese Giuseppe Cammarota, cui non si risparmiò un supplizio più atroce della morte stessa, l'assistere all' esecuzione dei tre compagni: Giacomo Antonio Gualzetti, poeta e giornalista; Marcello Eusebio Scotti sacerdote, l'uno e l'altro napoletani; e l' ufficiale Nicola Ricciardi di Caserta. E la cronaca di quel giorno narra che mentre si eseguivano le condanne capitali in mezzo ad una folla senza numero, due palchi pieni di spettatori caddero generando nella piazza uno scompiglio per cui la truppa si pose in armi. I corpi di questi quattro sventurati furono poi insieme sepolti nella parrocchia del Carminiello. Ma dove fu sepolta la loro memoria? Essa, vincendo di cento anni il silenzio, è qui viva e potente e pronta a lanciarsi lontana sulle vaste ali dell' avvenire, poiché la storia in quel giorno con Giuseppe Cammarota scriveva il nome non del volgare assassino, ma del Gonfaloniere dei martiri del secolo nostro.

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E chi era stato il gonfaloniere dei martiri della fine del secolo scorso, di quei martiri che col loro sangue dettero il primo seme della Repubblica Napoletana? Un giovane di appena 24 anni, di bello aspetto, di animo fervido e gentile e di famiglia ricca di censo e di nobiltà; un giovane colto, che era stato a capo degli studenti universitari, era stato l'anima del club rivoluzionario napoletano, e che le sue ricchezze aveva spese non per godersi la vita, che a queir età è pur bella, ma per il santo ideale che lo animava, la libertà della patria sua. Denunziato come cospiratore contro la Monarchia e la Religione era fuggito con altri; ma fatto arrestare a Terracina dal Papa, premuroso per la causa dei Borboni, era stato ricondotto a Napoli e processato. E questo giovane condannato a morire sul palco infame, senza che potessero salvarlo né l'età giovanile, né le suppliche di sette sue sorelle e della sventurata madre, doveva essere anche un nostro conterraneo. In sull'alba del giovedì, 16 ottobre 1794, egli ed altri due, compagni di fede e di destino, nella Vicaria di Napoli furono messi in cappella per essere dai Padri di S. Maria Succurre Miseris disposti a ben morire. Quei Padri chiesero ai tre infelici i loro nomi e le notizie delle loro famiglie. Il primo a rispondere disse così: ''Io sono Vincenzo Galiani nativo di Montoro, dell' età di anni 24, ho il padre e la madre viventi, 5 fratelli e 7 sorelle; ed ho preso la cresima''. Poi risposero gli altri due: Vincenzo Vitaliano ed Emanuele De Deo. Dal giovedì al sabato convennero alla Cappella diversi Padri assistenti. Pareva tanto solenne ed insolita l'esecuzione di quei rei ''di lesa maestà divina ed umana'', che intervennero i maggiori prelati della Compagnia: il vescovo di Caiazzo Monsignor D' Ambrosio, Monsignor D. Antonio Pignatelli gran Priore di Bari, Monsignor Spinelli, vescovo di Lecce. Verso le ore 19 e mezzo del Sabato la Giustisia uscì dal ''Confortatorio'' dirigendosi al Largo del Castello, oggi piazza Municipio. Durante il triste corteo i tre infelici ebbero coscienza piena ed intera della loro parte; ed ascesero il patibolo non protestando innocenza, non facendo mostra di teatrali audacie, non discorsi, non imprecazioni, non incitamenti alla stupida folla, e neppure con la illusione che da essa sorgessero i vendicatori. Il primo ad essere afforcato fu Vitaliano. Il Galiani prima di salire l'infame scala volle baciare la terra, e queir atto ai semplici e buoni Padri assistenti parve umiltà, ma a me, dice bene il Conforti, pare dimostrazione di affetto al luogo che lo aveva visto nascere, e per cui rendeva la vita. Terza fu la esecuzione del De Deo. Un colpo di arma da fuoco originato da una rissa provocò altri colpi e si ebbero altre vittime tra l'immensa folla stivata da una selva ispida di baionette. Il corpo di Vincenzo Galiani con quelli dei compagni fu seppellito nella Chiesa di S. Brigida. Questa la fine di Vincenzo Galiani, o signori, la cui memoria ci è tramandata da tutti i contemporanei colla venerazione dovuta ad uno dei più cari dei nostri martiri politici. Ma io non vi nascondo che vi è stato chi ha creduto di dover strappare la corona d' alloro dal misero capo di Lui provando che egli alla sola vista della tortura che doveva straziarlo, si scoraggiò e si copri d'infamia rivelando i suoi compagni di setta. Non è questo il momento di ricerche, non è in questo luogo che deve parlare la critica storica. Io vedo un giovane di 24 anni che spregiando le ricchezze e le lusinghe di un'esistenza facile e lieta e cacciandosi nell' arduo campo delle cospirazioni, delle lotte, del cimento, paga al carnefice il suo grande amore alla libertà. Vedo affogato dal capestro il suo vergine spirito e dico: Non guardiamo in questo momento se quelle giovanili fibre abbiano tremato dinanzi a si atroce creditore; ricordiamo solo la loro giovinezza ed i palpiti che le animarono. E vedo ancora nello stesso anno morire la Giuseppina di dolore per l'amara perdita del fratello; poco più di quattro anni dopo, nella feroce reazione di Montoro, l'altra sorella, Giustina, assistere al saccheggio ed alla distruzione della sua casa, allo eccidio del consorte, Giosuè Pepe, e di due cognati, Gennaro e Tommaso, ed essa stessa trafitta da 17 colpi di pugnale, ai quali miracolosamente sopravvisse. Vedo, pietoso e crudele spettacolo, undici di questa famiglia Galiani, tra cui il vecchio padre e la madre del nostro martire, profughi andarne coi soldati francesi a Tolone. Vedo, o signori, il fratello di Vincenzo, Giacinto Galiani, pugnare tra i valorosi difensori della crollante repubblica e cadere squarciato il petto da palle nel 13 giugno di queir anno 99 presso il ponte della Maddalena. Vedo tutto questo sangue che scorre dalle membra di una sola famiglia per amore alla libertà di queste terre, vedo tutto un martirio, e penso, penso al grande sacrifizio!

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Mentre in Francia il terzo stato aveva abbattuti i vecchi privilegi e proclamato il codice dell'umana eguaglianza, in Napoli invece il re Ferdinando non vedendo che un delitto in ogni progresso, in ogni cultore di scienza un rivoluzionario, organizzava tribunali d'inquisizione. Sua alleata era la paura, sua perfida consigliera la moglie Carolina, suoi ciechi fautori quei Vanni e Guidobaldi che sognavano d'incatenare non meno di ventimila rei e quarantamila sospetti. Eran ribelli a Dio ed al Re, si diceva nelle accuse, e il Governo proclamandosi sfacciatamente vendicatore della giustizia divina, per niente offesa, si guadagnava il favore del popolo ignaro ed illuso. Fin dal principio insidiato e sorvegliato fu tra gli altri Giuseppe Cammarota. L'occasione non era mancata. Nel dicembre del 1792 la sua casa in Napoli aveva accolto in fraterno convito insieme con Mario Pagano, Domenico Cirillo, Eleonora Fonseca Pimentel, Cestari e Galiani tutta l'ufficialità della flotta francese venuta allora sotto il comando del La Touche per esigere che fosse riconosciuta la repubblica della loro Patria. I liberali napoletani avevano fraternizzato entusiasticamente con quelli che essi chiamavano liberatori dei popoli oppressi. E quando i francesi, commossi dalle ovazioni ricevute e grati della gentile ospitalità, li invitarono a sontuoso banchetto sulla nave ammiraglia, non vi mancò, secondo quanto afferma il D' Ayala, Giuseppe Cammarota: sicché d'allora egli fu vittima designata. Intanto tra una vita di azione da una parte e di spionaggio e di persecuzione dall'altra si giunse al 1798. Le vicende della campagna di Roma si sanno: i Francesi vi fondarono la Repubblica, e Ferdinando, che era corso a fermare le loro mosse, fu costretto a fuggire. Fuggì da Roma, fuggì pure da Napoli e riparò a Palermo coi suoi tesori. I Francesi si avanzarono vittoriosi sulla via abbandonata precipitosamente dal Sovrano, ma la plebe napoletana, più coraggiosa di lui innanzi allo straniero, contese loro con feroce resistenza per tre giorni l'entrata nella città. Infine la forza ed abilità di quelli prevalse ed il generale Championnet, stabilita la pace e guadagnati a sé i lazzari prodigando testimonianze d'onore a S. Gennaro, con un proclama annunziò la Repubblica. Si istituì un governo provvisorio con Cirillo, Delfico, Pagano, Manthonè ed altri, si diede mano a quelle leggi che erano nel programma francese e subito si organizzò la Guardia Nazionale per mantenere la pubblica tranquillità, invigilare sopra i cittadini malintenzionati e promuovere l'entusiasmo al nuovo ordine politico. Nella seconda compagnia della Guardia Nazionale trovo aiutante capitano Giuseppe Cammarota. Ma vuoi la mancanza di esperienza negli uomini del Governo, vuoi la opposizione del basso ceto a quel. regime impostogli, opposizione determinata dalla lunga, abituale servitù e dalla supina obbedienza ad ogni principio di autorità, l'albero della libertà -emblema della repubblica- non era destinato a fruttificare. Sia a Napoli che nelle altre contrade, come qui, la massa del popolo era rimasta fedele al Re: non si sapeva quali beneficii potesse apportare il nuovo governo, che era venuto su improvvisamente senza la coscienza popolare. Quindi alla richiesta dei milioni per contribuzione di guerra risposero disordini nella capitale, disordini in queste nostre terre. Ci volle allora tutta l'arditezza e prudenza insieme del conte di Ruvo, Ettore Carafa, venuto nella nostra provincia ai primi di febbraio, per ridurre alla obbedienza Volturara, Salza, Sorbo, Montemarano e, quel che è più, la ribelle Montoro. Questa aveva trucidato il Commissario francese, mandato colà a far richiesta di denaro, e aveva deciso la più fiera resistenza alle forze repubblicane, e se cedette, fu più all'astuzia che al valore. Ma né l'opera del Carafa, né quella dell' Olivieri e dello Spanò che vennero l'un dopo l'altro nella nostra provincia a capo di migliaia di armati a combattere gl'insorgenti, né quella di altri generali altrove, né gli sforzi dei governanti valsero a conquistare gli animi di tutto il popolo alla causa repubblicana. I sentimenti inveterati non si distruggono così facilmente e presto! Perciò fu possibile che un porporato, il cardinale Ruffo, congiungendo la spada col pastorale, come un prelato del medioevo, marciasse a capo di briganti a rimettere sul trono di Napoli un sovrano che poteva ritenersi perduto. Questa masnada, ingorda di saccheggio, sparse dovunque orrore e morte; e mentre essa si avanzava, il nostro avverso destino volle che i Francesi richiamati dai disastri dell'Italia settentrionale lasciassero Napoli e i Borbonici fin qui taciti e nascosti rimbrandissero le armi. Sottomesse le Calabrie e le Puglie l'armata della Santa Fede il 3 giugno giungeva in Ariano e dopo pochi giorni per la Serra di Montefusco entrava in Avellino. Quivi ebbe luogo un episodio, che non si può passare sotto silenzio, sia perché avvenne in Avellino, sia perché è uno dei più chiari esempi di quella fermezza, onde i più dei repubblicani cercarono ed affrontarono la morte. Mentre la gioia universale prorompeva tra la folla, risonò d'un tratto un grido di sfida: ''Viva la repubblica, morano i Tiranni''. Era la voce di un solo e questa voce fece fremere d'orrore e d'indignazione. Preso ed interrogato chi mai si fosse quel fanatico temerario, ognuno dei presenti ebbe a sbalordire nel sentirsi arditamente rispondere: ''Io sono il Presidente della Municipalità d'Agnone in provincia d'Abruzzo: mi chiamo notar Libero Serafini''. ''Chi viva'' gli grida minacciosa la folla sicura di atterrire ed arrendere a sé queir inerme; ma egli senza punto sgomentarsi dal vedersi cinto dalle reali truppe rispose: ''Viva la Repubblica Francese e Napoletana''. Invano lo impaurì quella gente sterminata che voleva massacrarlo; invano tentò lo stesso Porporato di fargli pronunziare: ''Viva il Re'' colla promessa che a questa sola voce avrebbe egli campato la vita. No, rispose, ho giurato fedeltà alla Repubblica Napoletana e Francese, e quindi non posso, né devo più retrocedere dal prestato giuramento. Chiamavasi Libero e, novello Catone, volle morire per quella libertà

............. ch'è si cara
come sa chi per lei vita rifiuta.

Rimesso ai ministri della Giustizia, che accompagnavano l'armata, non si piegò alla discolpa, fu impassibile alla condanna, impassibile dinanzi al palco che la dimane 11 giugno si rizzò sotto Porla Puglia. All'annunzio della marcia vittoriosa delle orde del cardinal Ruffo, all'osanna della reazione padrona degli Abruzzi, lasciare indifesa la casa paterna, abbandonar moglie e figliuoli alla vendetta dei nemici, e, non più in età giovanile, muover senz'altro tanto di lontano; partir solo ed inerme sospinto fatalmente dal dovere, senza alcuna coscienza dei mezzi e delle difficoltà della impresa, ma col fermo proposito e con la viva speranza di potere, in qualunque modo, unirsi ad altri, pronti come lui e risoluti al sacrifizio, tener fronte a quelle orde su la via e alle porte di Napoli, nelle cui mura dà gli ultimi aneliti l'oppressa libertà della patria; valicar pedestre monti e torrenti, farsi animoso innanzi a queir esercito acclamato dallo universale ed unico mandare un saluto alla vinta repubblica; tener fermo al dato giuramento, nonostante la ferita toccata da' briganti e la minaccia di morte, mantener piena devozione e prestar pubblico omaggio alla sua fede, e morire ignorato su le forche, sapendo che non un solo amico avrebbe tramandato a' posteri il suo nome, il suo eroismo, il suo martirio.... In verità, conclude queir anima onesta e candida di Giustino Fortunato, poche grandezze morali pareggiano questa di Libero Serafini nella storia della Repubblica Partenopea!. Il 13 giugno l'armata dei Sanfedisti era alle porte di Napoli. Il valore dei repubblicani non valse contro le forze superiori, contro il popolo insorgente; non valse l'eroismo di quel nucleo di Calabresi chiusi nel forte di Vigliena, i quali più che arrendersi preferirono seppellirsi sotto le macerie: dopo una resistenza la più cruenta i repubblicani si chiusero in Castelnuovo e in Castel dell' Uovo. Il 19 giugno si capitolò col cardinale Ruffo. Negli articoli della capitolazione c'era che la guarnigione dovesse uscire cogli onori militari; che chi volesse andar libero in Francia, era libero di farlo; chi no, non sarebbe stato molestato. Ma poi ''i re non patteggiano coi sudditi ribelli'' si disse, e lacerata la capitolazione, come mai si ebbe esempio nella storia, cominciarono i processi e i quasi giornalieri supplizi. Non si risparmiò né l'impotenza della vecchiaia, né l'eminenza del merito e dell'ingegno, né gli incanti del sesso e, cosa addirittura disumana, ai 31 ottobre 1799 si afforcava un giovanetto che non raggiungeva i 17 anni, Raffaele Iossa, il quale, come ci lascia scritto un contemporaneo, innanzi al patibolo ''abbracciava e scongiurava il carnefice che esso non voleva morire facendo gridi di creatura come era''. Non è possibile però proclamarsi punitore in nome della giustizia divina e nel tempo stesso infrangere la parola data e le capitolazioni, e dopo la vittoria formare tribunali di sangue e infierire mandando a morte non più per alcuna necessità politica, ma per saziare odii e vendette personali: in tal caso il vincitore diventa un assassino, la guerra un delitto comune. Ma o voi stupidi Borboni, ciechi artefici della forza contro il diritto, carnefici senza pietà per alcuno, almeno per pietà di voi stessi pensate che ad ogni ingiusta, malvagia repressione risponde terribile la reazione. E proprio da queste balze irpine più tardi nel 1820 risponderà un grido di ribellione, che vi farà tremare; e verrà poi il dies irae, e le vostre ossa fremeranno, quando in quella valle di Giosafat, che sarà Gaeta, un figlio vostro sarà chiamato dal giudizio del popolo a render conto di colpe non sue, onde, come voi, che non sapete che fuggire e uccidere, egli fuggirà dinanzi ad un rappresentante di questo popolo, innanzi a quel cavaliere dell'umanità, che chiamasi Giuseppe Garibaldi. Quel giorno del 1860 sarà il dies irae che costringerà il figlio a maledire il padre poiché la condanna sua, il suo vergognoso esodo avrà radici nelle vostre passate efferatezze. Dal 29 giugno 1799, quando impiccavasi sulla nave Minerva l'ammiraglio Francesco Caracciolo, fino agli 11 settembre del 1800, quando in piazza Mercato fu mozzata la bella testa a Luisa Sanfelice, Napoli fu il teatro della più vergognosa vendetta di uno scellerato governo. Peccato che coi nostri martiri demmo anche noi il boia, Tommaso Paradiso di Montefusco, che appena la mannaia o il capestro consegnava alla storia e alla immortalità quei nomi, agitava in aria il berrettino rosso, schioccava le dita e intuonava ''Viva Dio, Viva il Re...'' e con lazzi osceni da Pulcinella divertivasi colle donne che cadevano sotto la sua mano lurida e schifosa, e, spogliato fin della camicia il cadavere di Nicola Fiani, mostrava alle donne ed alle fanciulle lì convenute quel che il pudore m'impone di tacere! Il riso mefistofelico di questo esecutore di morte, il ghigno beffardo e turpe che accompagna gli ultimi aneliti dei giustiziati, è terribile, è più terrorizzante di quei gemiti; ma, vivaddio, esso non raggiunge le anime che in quel mentre volano al Cielo, da quei martiri non è sentito, ma invece va a perdersi nelle sale della Reggia, ove sghignazza tra la tristezza e la paura che vi regnano, e risuona come il riso di tutto un popolo, di questo povero Rigoletto, che un giorno sollevato il velo e riconosciuta la schiavitù inconsciamente preparata di propria mano ai figli, riderà ancora, ma di un riso vendicatore. La terra di Montefusco però se ha dato il boia al servizio dei Borboni dà in sua vece un martire per riscattarsi dall'onta! E' troppo pagare alla Storia con un martire un carnefice, ma questa volta sia vanto a tale prodigalità della terra nostra! Cosi sei giorni dopo il supplizio di Giuseppe Cammarota, vale a dire il 10 gennaio 1800, là nell'orribile prigione della sua Montefusco, in età di poco più i 38 anni morì di stenti fra i ceppi Pirro Giovanni De Luca, o come vuole la tradizione, di veleno propinatogli dalla stessa famiglia per sottrarlo all'infame patibolo. Giureconsulto valoroso, era stato compagno carissimo di Mario Pagano: la insurrezione lo aveva visto animoso in provincia di Terra di Lavoro; il Borbone lo uccise nelle prigioni; la Storia oggi lo consacra martire! Ma un'altra vittima ancora conta l'Irpinia: Gaetano Oliviero di Flumeri, degno di essere insieme cogli altri da noi onorato. Egli, che esercitava in Napoli l'avvocheria, era legato con patti di solenne amicizia col Filangieri, col conte di Ruvo, con monsignor Natale, col Cirillo, col Pagano e molti altri dell' epopea napoletana e, come questi, prese parte attiva a quei moti liberali. Finita però miseramente la Repubblica, fu dagli sgherri sitibondi di sangue ricercato. Scorgendoli egli venire contro di sé, impavido li attese alla casa, forzata la quale l'Oliviero fu buttato giù da un balcone sulla strada, ove una plebaglia forsennata fece a pezzi il suo corpo. Aveva 39 anni, e di lui restano parecchi importanti scritti inediti. Signori, il ricordo di tanto sangue versato dovrebbe straziarci l'animo, eppure noi ora ci compiacciamo di ricordare quei dolori, quei tormenti. Perché? Vi siete mai domandati perché allora che la vostra mente corre sull'erta del Calvario e vede il Cristo crocifisso, dai vostri occhi non scorre una lagrima? E' che là dove l'ammirazione per la grandiosità del sacrifizio tutta conquide la mente e la solleva fuori de' suoi normali confini, il cuore trattiene i suoi palpiti ed il dolore si spiritualizza nell'estasi. Noi ora ci compiacciamo di ricordare tante vittime, e quasi ameremmo contarne a lungo il numero, perché esse sono quadri che destano ammirazione profonda, sono esempi che ci attraggono, che ci educano e ci farebbero domani esser grandi, come fecero grandi gli uomini che ci hanno data l'Italia. Se è così, benediciamo, o signori, a tanta forza d'animo, ammiriamo tanta fermezza nel sacrifizio; se è così, resti sempre verde la fronda d'alloro che corona il nome di questi illustri, la cui memoria sfuggita alla cerchia delle catene, alle funi delle torture, corre lontano sulle ali dell'avvenire. E siate lieti ed orgogliosi, o Atripaldesi, che fra tante vittime consacrate alla venerazione dei posteri, trovasi anche quella di un vostro concittadino. Giuseppe Cammarota ebbe per la Patria gli stessi ideali di libertà di quegli eroi, sognò gli stessi riscatti, consacrandovi tutto il suo giovane cuore, quando tali sentimenti erano un delitto che si scontava col sacrifizio della propria vita. Ed egli tutto ciò seppe, a queir amore si dedicò e pagò senza pentimento, ma colla serenità di un dovere compiuto. La maggior parte di voi avrà saputo dagli avi suoi quanto onorato sia stato sempre il nome di questa famiglia. I Cammarota sono oriundi di Genova: un Domenico Cammarota Adorno, illustre cittadino di Gravina, aveva portato nel secolo XVI da queste parti i suoi Penati. Un Giuseppe Cammarota seniore fu letterato di grido nel 1770, e un Gaetano Cammarota fu segretario del pietoso monte di vestire i nudi. Nell'anno 1764 il dì 27 luglio nacque in Atripalda Giuseppe Cammarota da Vincenzo e Vittoria Belli dei baroni d'Ischia. La madre, donna di gran cuore e di gran senno, diede al figlio la prima educazione liberale; Giuseppe e Gennaro Cestari, due illustri uomini, amici e parenti della famiglia, la completarono e infusero nell' animo del giovane un grande amore per le lettere e per quei letterati che più sentivano carità di patria. Invaghitosi di Anna Pessina, bella fanciulla, la sposò nel 1789. Da essa ebbe tre figli; ma ahimè, triste retaggio lasciava a quei poveretti e alla donna sua, di andare raminghi in cerca di aiuti e di sostentamento, essi nati fra gli agi nei quali vedevano ora tripudiare i cagnotti della perversa regina. Quale fu il delitto che espiavano quei tre bambini? Fu il patriottismo del padre. La casa di Giuseppe Cammarota aveva accolto, come dicemmo, quantunque egli non vi si trovasse quel giorno, il Pagano, il Cirillo, la Fonseca ed altri per onorare in un convito cittadino l'ammiraglio francese La Touche: i principii liberali di Giuseppe eran ben noti, e questo convito fece crescere il sospetto politico contro di lui. Proclamatasi in Napoli la Repubblica, fu chiamato a coadiuvare il commissario Vincenzo Avitabile nella sezione municipale del colle Giannone, oggi sezione Avvocata: il 1° febbraio 1799 prese le armi come ufficiale della Guardia Nazionale, e divenne capitano quando Carlo Muscari passò dal comando di quella compagnia a comandare il battaglione. Bastarono anche queste lievi cagioni per essere poi ricercato da quella brava gente del cardinale Ruffo; tanto più che nel palazzo Cammarota su all'erta di S. Maria Ogni Bene, ove si leggeva il numero 35, abitavano anche i Cestari, notissimi per amore di libertà; sicché le genti faziose posero a sacco ed a fuoco la casa, trascinarono nudi nelle prigioni i fratelli Gennaro e Andrea Cestari ed il giovine Giuseppe Cammarota. Il quale dalle prigioni della Vicaria fu menato avanti la sanguinaria Giunta di Stato, incolpato di aver forse appartenuto alla Guardia Nazionale e avere buttato dalle sue finestre gran quantità di danaro al popolo, quando i Francesi vittoriosi portavano la libertà in Napoli. Ed ebbe condanna di morte che patì con serenità d'animo il dì 4 gennaio 1800. Così con lui e con tre altri compagni profanavasi e tingevasi di sangue l'alba del nuovo anno, come segno di rinascente ferocia e di nuove interminabili minacce. Oh quanto è grande e invadente l'amore di patria in tempi di nequizie e di oppressione, e quanto deve essere dolce il proprio sacrifizio per esso, se tu, o Giuseppe Cammarota, potesti salire la forca con serenità, mentre il tuo cuore sentiva la voce della consorte e del piccolo Alessandro e di Ascanio e del primogenito Vincenzo, di appena 8 anni! In queir ora forse la desolata madre nelle mute stanze fra le lagrime e gli spasimi cambiava ad essi le ricamate vesti in nere gramaglie e apprendeva loro che un governo scellerato ha ucciso il padre e che omai nulla a loro resta di bene: distrutta ogni masserizia e ogni suppellettile; confiscata la casa in Napoli; confiscati gli averi in Atripalda, gli averi in Taurasi. Figli derelitti, se nell' ombra della notte voi stretti alle vesti della madre vi trascinate sul luogo di queir infame teatro, a quella Piazza Mercato, a cercare l'orma lasciata dalle abominevoli travi e a baciare quel terreno sacro, e schiudete l'animo ad un sentimento di fede, un'onda di aere benefico spirante dal mare infinito vi porterà una voce dell'avvenire: quella voce vi dirà che un giorno:

Si scopriranno le tombe--Si leveranno i morti--I martiri nostri saran tutti risorti

e che il padre vostro risorgerà al risorgere dei tempi, al risorgere della Patria. Vi dirà che un giorno, come voi assisteste all' assassinio paterno, i vostri discendenti assisteranno ad una festa di glorificazione, in cui tutto un popolo di concittadini renderà onori al vostro genitore e ne tramanderà onorato ai posteri il nome.

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Te beato, o Lorenzo De Concilj, che giovane poco più che ventenne, scampato ai sanguinosi combattimenti di Portacapuana e del ponte della Maddalena, non vedesti segnato il tuo nome tra le processure della Giunta di Stato, ma nel 1820 lo segnasti primo nella Storia del Napoletano, Te beato che, proclamati per opera tua da noi i dritti del popolo, potesti sfuggire alla condanna di morte e combattere in terra straniera per la libertà altrui, e passare poi nelle Romagne a combattere, combattere sempre. Te beato che dopo aver portato alto ed onorato il nome italiano in 27 anni di esilio potesti, ritornando in patria, prendere parte alle rivoluzioni del 48 e del 60 e vedere avverato il tuo sogno dell'Italia Una. O Garibaldi irpino, io mi prostro riverente alla tua immagine come dinanzi agli altari che oggi dopo un secolo si elevano a quei martiri nostri, e col sentimento erompente dall'animo esclamo: Oh Italia, Italia, quanto sei bella per gli aspri tuoi dirupi alpini e per le dolci coste sicule, assisa tra il Tirreno e l'Adriatico mare sotto un cielo incantato; quanto sei bella perché madre del gentil sangue latino, e madre di Dante e di Volta, di Michelangelo e di Verdi; ma quanto sei più bella e cara come figlia di tanti martiri che col loro sangue ti crearono!

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